Il caso (clinico) di “sora” mascherina

Il caso (clinico) di “sora” mascherina

26/06/2021 Off Di   Gianluca Kamal   In   Società   

Lo abbiamo già scritto e celebrato a dovere: il 28 giugno ci leveremo la mascherina. Almeno all’aperto. Sarà come mostrare, dopo tanto, la parte più intima di noi, il volto. Coprirselo, diciamocelo, ogni tanto fa bene: come gesto spirituale, come “dispositivo di protezione” di e da sè stessi e soprattutto dagli altri, considerato l’effetto deturpante e orrifico che hanno avuto mesi di lockdown (cognitivo più che fisico) sull’aspetto esteriore di gran parte della popolazione. I giornaloni editi e scribacchiati dai “professionisti dell’informazione”, quelli che incitavano all’obbligo della mascherina persino nell’angolo più sperduto del bosco più sperduto in una qualche latitudine più sperduta del globo terrestre, hanno esultato, salutando l’ennesima Festa di Liberazione tirata dentro ad minchiam con editoriali diveramente obliqui, malinconici nella loro esuberanza.

Dentro la folta e pestilenziale schiera di oracoli del buon senso integralista (da Dacia Maraini con la miracolosa “sparizione di raffreddori e influenze, dovuta alla vituperata maschera, che negli anni prepandemia ci colpivano in continuazione” ad Antonio Polito, secondo cui “un semplice gesto come mettere la mascherina è diventato contemporaneamente vitale per sè stessi e utile per gli altri”), uno merita incontestabilmente il premio di “Pizia della Resilienza”: lo psicoanalista Massimo Recalcati. Del resto, non poteva mancare, va da sè, un suo intervento sulla questione. Ma che al fetido straccio, ribattezzato “sorella mascherina”, si potesse dedicare un tedioso elogio come quello apparso su Repubblica ogni più pessimistica previsione viene clamorosamente superata. “E’ stato il nostro oggetto transizionale, il nostro riparo, il nostro scudo, la nostra salvezza”, scrive l’Illuminato. Essendo uno psicoanalista, uno che per lavoro incontra diverse persone con problemi con sè stesse o con le proprie pirandelliane maschere, quando scrive di tanti individui che che faranno fatica a togliersi la mascherina e riprendere a vivere senza, possiamo anche dargli ragione. Quando però si arriva ad affermare come “sia meglio avere un pò di nostalgia della mascherina” e che addirittura dovremmo tutti ringraziare genuflessi “nostra signora mascherina”, servendosi peraltro di oscure supercazzole linguistiche spacciate per dotte giustificazioni del nulla, allora entriamo nel campo non della psicoanalisi ma della patologia.

La mascherina è un simbolo? Certo, lo ha sentenziato candidamente persino Pregliasco. “Protezione della vita in cambio di una sua inevitabile restrizione”, scrive Recalcati (“sicurezza in cambio di libertà”, do you remember?), tanto che ci si dibatterà sanguinosamente sull’arcano della possibilità o meno “che il respiro riprenderà il suo ritmo naturale”, poichè per alcuni “non è detto sia davvero una liberazione”. Lo abbiamo visto con le riaperture: “difficile abbandonare una prigione che è divenuta un rifugio, difficile tornare all’aperto”. I giochini della neolingua sono sottili tanto quanto inquietante è lo scenario che cercano di celare nel modo più zuccheroso possibile. Lo stesso concetto di “normalità” è percorso da una profonda e scellerata rivisitazione del significato, e lo sdoganamento della mascherina da portare ovunque e a contatto con chiunque non è più tanto l’accortezza minima richiesta per proteggersi/proteggere da un nemico eccezionale, ma un fatto accettato come tale, una usanza nuova per la quale non è servito nemmeno scomodare Overton e la sua finestra.

E’ il simbolo. Per disturbati, ma pur sempre un simbolo. E quando ce la leveremo dai nostri visi pallidi e increspati non la sacrificheremo in un grande rogo purificatore. La terremo tra le nostre mani giunte, la bagneremo delle lacrime che sgorgheranno dai nostri occhi devoti, rivolgendoci a fra’ Massimo canteremo la sua gloria.

Ave, sorella mascherina.

Ite, missa est.