Il lavoratore del futuro (che verrà?)

Il lavoratore del futuro (che verrà?)

02/10/2022 Off Di   Redazione   In   Officina   

Pubblichiamo l’articolo uscito sul sito di Radio KulturaEuropa lo scorso 2 settembre (titolo originale: “Il conflitto tra capitale e lavoro: il convitato di pietra”) nel quale si delineano i termini di una riflessione comune su presente e futuro del mondo del lavoro e della stessa figura del lavoratore

Sono anni che in generale si nota un’assenza totale di riflessione sul conflitto Capitale/ Lavoro e sul suo stato di sviluppo oggi. Dopo decenni di ubriacatura ideologica marxista sul tema, che probabilmente ha pesato molto nella rimozione del tema, è però calato un silenzio assordante che sarebbe bene rompere perchè lo riteniamo comunque un elemento centrale per il futuro.

Le continue ristrutturazioni dei processi di produzione, l’automazione che ha fatto la sua comparsa nelle grandi fabbriche del tessile, dell’auto e del settore metalmeccanico sin dalla fine degli anni settanta, hanno fortemente indebolito la figura centrale del lavoratore di fabbrica, passato rapidamente dalla figura dell’operaio sociale, cioè che proiettava fuori dalla fabbrica il rapporto conflittuale e le sue forme nella società, alla liquefazione e parcellizzazione del tradizionale lavoro operaio.

La fine del mercato “protetto “ italiano che durava dal dopoguerra e che possiamo datare intorno al biennio 1992-1993 con l’avvio di una massiccia campagna di privatizzazioni, che al contrario di altri paesi europei, ha coinvolto anche settori fino ad allora ritenuti strategici, la comparsa di nuove figure contrattuali cd atipiche che hanno coinvolto soprattutto le fasce giovanili in cerca di primo impiego, le delocalizzazioni all’estero di rami produttivi di aziende medio-grandi (pensiamo anche al grande indotto della Fiat) hanno concorso in modo massiccio alla scomparsa della conflittualita’, fino ad allora molto forte , tra lavoratori e proprietari del capitale e quindi dei mezzi di produzione.

La stessa “smaterializzazione” della produzione, con una forte spinta alla “finanziarizzazione” degli acquisti, ed una politica di liberalizzazione degli scambi, perseguita a livello mondiale, tramite organismi come il WTO ed il Fmi , hanno cambiato lo scenario della produzione, del consumo e del commercio, su scala globale, tanto da poter affermare senza tema di essere smentiti, che il ritorno a politiche meramente nazionaliste in campo economico, sono alquanto velleitarie per qualsiasi Stato sul pianeta. L’economia è ormai interconnessa su scala planetaria, ma questo processo a ben vedere non è un fulmine a ciel sereno, ma il naturale corso dello sviluppo di produzione capitalista nel corso dei secoli.

Ciò non vuol dire che a livello di singoli Stati, non sia più possibile adottare le classiche ricette neokeynesiane , cioè lo stimolo a maggiori investimenti statali per supportare l’economia, ma che queste politiche sono possibili ove vi sia un blocco economico integrato su base almeno continentale od organismi legati ad aree geografiche coese come l’Unione Europea, gli Stati Uniti ed i paesi dell’anglosfera (Commonwealth) e la Cina. 

Su queste premesse di base, si innesta la vexata quaestio del ruolo dei lavoratori, che come abbiamo visto in precedenza, non assumono più’ quel ruolo centrale nella produzione che assumevano nel Novecento, ma che sono comunque un fattore determinante nel ciclo produttivo in molti settori. Sono i cd produttori.

In coerenza con il tramonto dei corpi intermedi di rappresentanza politica ( i partiti) anche il ruolo dei sindacati e della rappresentanza dei lavoratori è cambiato, assecondando per realpolitik  la tendenza che abbiamo descritto, soprattutto per il venir meno di molte delle leve che lo Stato nazionale aveva fino agli anni 90, per poter regolare il mercato del lavoro ed intervenire con adeguati meccanismi correttivi, laddove possibile. 

Oggi infatti, al massimo, l’obiettivo per i sindacati in Italia è il mantenimento dei livelli occupazionali , la tenuta dei salari (fermi da oltre 20 anni) , le richieste di calmierare l’inflazione, il ricorso alla cassa integrazione.

La dimostrazione plastica, di quanto da noi sostenuto, spiega anche l’assenza dello Stato, nella regolazione delle vertenze industriali aperte che vedono protagoniste aziende multinazionali che aprono e chiudono stabilimenti ed impianti sulla base del costo del lavoro e della normativa fiscale piu’ adeguata alle loro esigenze. Se lo Stato non ha il potere di intervenire, semplicemente non interviene ed il sindacato ovviamente puo’ fare ben poco.

L’ingresso prepotente nel ciclo produttivo di diversi settori dell’automazione, della robotica, dell’AI (intelligenza artificiale) è un altro fattore che bisogna affrontare. 

Come ogni cambiamento del modo di produzione è insito nelle fasi di ristrutturazione del capitale, come l’introduzione del telaio o della macchina a vapore, mutano le competenze e le qualifiche necessarie ad espletare la prestazione ,il che rende obsolete quelle precedenti.

Cambia completamente il modo di lavorare, anche fisicamente, se si pensa all’introduzione in molti lavori del cd, smart working che non richiede più la presenza fisica del lavoratore in azienda e apre invece alla possibilità di lavorare ovunque.

Battere i piedi ed invocare un nuovo “luddismo” contro la tecnologia serve a poco o nulla, a meno di non voler interpretare il ruolo degli “insignificanti dissidenti”, ma allora che fare?

Anzitutto , va posta prepotentemente la questione non su quali siano i modi di produzione che con il tempo mutano, ma il problema principale: su chi deve detenere i mezzi di produzione .

Il falso dilemma su se debba essere lo Stato o i privati, non è di molto interesse, posto il discorso sin qui elaborato ed anche perche’ la natura delle due articolazioni è la medesima, le differenze risiedevano in passato solo nel processo di accumulo del Capitale e nell’ evidente coinvolgimento dello Stato nel secondo , che ne ha determinato comunque l’inadeguatezza con l’accelerazione del Capitalismo finanziario in tutto le aree del mondo. 

Oggi il ricorso al Capitalismo di Stato è riservato in alcuni paesi essenzialmente ai settori strategici oppure riguarda paesi arretrati dove prospera un’oligarchia paramafiosa e periferica..

In questo senso, politiche di New Deal o neokeynesiane non possono più , come detto in precedenza, efficacemente essere messe in campo a livello di singole Nazioni e hanno bisogno di una piattaforma quantomeno su base continentale. 

Inutili e folkloristici, quindi, i lamenti che si odono per un ritorno ad un Capitalismo di Stato in Italia, il quale peraltro risentiva di un clima internazionale ed economico completamente diverso, e che ha comunque concorso dopo lo slancio degli anni sessanta, all’attuale arretratezza del modello di sviluppo e di competitività su base europea. 

Il problema , invece , della proprietà dei mezzi di produzione, dell’autogestione e della massima partecipazione dei lavoratori alla gestione ed agli utili, sono di estrema attualità, sia perchè presente in nuce sia nella normativa italiana che in quella europea sia perchè rappresenta in potenza un vero e proprio esercizio di Contropotere dei lavoratori nei luoghi di lavoro.

Stupisce, infatti, che un intera area di pensiero non spinga al massimo aggiornandole nei contenuti, queste parole d’ordine, che rientrano comunque nell’album di famiglia, rassegnandosi alla politichetta tatticista, sloganistica e rivolta ad un rivendicazionismo pietistico di “diritti” che spesso non  hanno nulla  a che fare con il rapporto tra Capitale e Lavoro.

Cominciare a mettere a fuoco, tenendo sempre presente la realtà, ma non rinunciando ad incidere su una questione che è sempre stata e sarà sempre centrale in un’economia di stampo capitalista , è già un passo importante e significativo. Noi abbiamo lanciato un sasso in tale direzione, speriamo altri lo raccolgano.