Parole senza nome. Il caso “LGBTQ+”

Parole senza nome. Il caso “LGBTQ+”

30/06/2022 Off Di   Giulia Maria Donato   In   Officina   

Uno dei dialoghi platonici che ancor oggi gode di grande attualità e rappresenta la base delle teorie di Filosofia del Linguaggio è sicuramente il Cratilo. Attraverso la voce di Socrate, Platone sostiene che oltre al Nome delle cose (quindi al linguaggio come atto descrittivo) esiste un mondo reale a cui esso si riferisce. I nomi delle cose quindi, sono di per sé sempre veri, infatti non esiste “nominabilità” per ciò che non appartiene al mondo reale. Semplicemente, ciò che ha un nome esiste e ciò che non ha un nome, non esiste. Ciò che conta qui considerare relativamente alla teoria del linguaggio di Platone, è senz’altro l’idea che non sia possibile definire con un nome ciò che non esiste.

Le lingue naturali (ossia le lingue usate tra un gruppo di persone per comunicare, quindi tutte le lingue parlate in questo momento in tutto il Mondo) hanno coniato nel tempo nuovi termini per definire lo stato di cose della propria contemporaneità. In ambito sociale negli ultimi decenni sono molte le parole nate per poter definire le tendenze sessuali: gender fluid, queer, asessuali, bisessuali, pansessuali, transessuali… Ciò che conta davvero è analizzare dal punto di vista della Pragmatica del Linguaggio il ruolo in specie assertivo di questi nuovi termini. Le parole non solo descrivono lo stato delle cose ma all’interno della comunità in cui vengono “esplicitate” assumono un significato comunicativo, mandano messaggi di senso. È questo il ruolo impattante del linguaggio all’interno della società. Utilizzare quindi tutte le parole raccolte nell’acronimo LGBTQ+ oggi, significa non solo descrivere una parte del mondo reale quanto dotarla anche di un significato. La natura dell’acronimo (e quindi delle parole a cui fa riferimento) dovrebbe avere un ruolo cumulativo (per lo meno secondo i sostenitori dell’utilizzo). Addirittura, subisce allungamenti per altrettante tendenze sessuali. La ragione sociale fondatrice vuole ridefinire tutti i generi possibili per diversificarli sì, ma renderli di fatto, tutti uguali nel diritto del riconoscimento. Evidentemente LGBTQ+ non fa riferimento alcuno al genere sessuale etero. Uomo o donna che sia, di fatto, non sono qui definite. Un termine cumulativo sì, ma soprattutto escludente. Tutti tranne due: uomini e donne eterosessuali. Nasce quindi una riflessione sociologica importante: esclusi uomini e donne dalla pluralità dei generi, uomini e donne che fine fanno? Evidentemente si potrebbe dire che sono già definite le categorie, come “uomo eterosessuale” e “donna eterosessuale”. Ma non sono presenti nel termine cumulativo LGBTQ+. Quello di tutti (?) i generi. Nella realtà dei fatti però, proprio per il ruolo “attuativo” della parola sono esclusi. Il valore sociale del termine LGBTQ+ è facilmente riscontrabile nel mondo a cui fa riferimento. L’atto linguistico “escludente” è diventato atto “sociale” escludente. La parola è diventata specchio del reale al negativo. Diritti, istanze, rappresentazione sociale, comunicazione, media, politica: hanno preso coscienza e hanno negativizzato le tendenze sessuali dall’eterosessualità. Il ruolo della parola che doveva essere equalizzante (lo era davvero?) ha creato di fatto diseguaglianza per lo meno dal punto di vista del valore dell’atto linguistico. Nella contemporaneità utilizzare il termine “eterosessuale” ha certamente un valore attuativo inferiore rispetto a LGBTQ+. Tutti i generi hanno eguale valenza fuorché uomo e donna eterosessuali. La riflessione quindi deve muoversi banalmente sull’importanza delle parole: non solo conta comunicare, conta ancor di più la forza volitiva dell’atto linguistico. Io, donna eterosessuale, io, uomo eterosessuale, qualora voglia sentirmi incluso ho la possibilità (e il dovere) di dare valore all’atto linguistico: l’eterosessualità come definizione dello stato di cose ma anche, e soprattutto, con valore pragmatico del linguaggio, come atto sociale.