Vergarolla e quella spiaggia tinta di sangue

Vergarolla e quella spiaggia tinta di sangue

18/08/2021 Off Di   Gianluca Kamal   In   Correva l'anno   

Un’esplosione che sembra uscire dalle viscere della terra solleva la città frantumando vetrine e finestre per un raggio di chilometri, mentre un fungo osceno annerisce il cielo. Decine di corpi sono scagliati nel mare e pendono dai rami della pineta, molti irriconoscibili, alcuni del tutto polverizzati. Sono più di un centinaio, ma solo 64 saranno quelli con un nome e un cognome. Per gli altri ci si affiderà ai macabri conteggi dei medici, rimettendo insieme i pezzi e le membra. Un terzo sono bambini.

Il 18 agosto 1946 era una domenica di sole. Quel giorno sulla spiaggia di Vergarolla, in quella Pola ancora italiana, si svolgevano importanti gare di nuoto per assistere alle quali si erano accalcati oltre duemila polesani, tra i quali intere famiglie. Vicino a loro, intorno alle 14.15, esplosero 28 ordigni. Mine antisommergibile e testate di siluro disinnescate da tempo dagli artificieri sotto il controllo degli Alleati, rese tanto sicure che i bambini ci giocavano ogni giorno a cavalcioni e le madri vi stendevano i costumi ad asciugare. Ore prima prima però una mano assassina le aveva riattivate. Il mare era divenuto del colore del sangue, brandelli di carne ricaddero sui pini, e i gabbiani se ne cibavano eccitati.

La guerra è finita da tempo, l’Italia è già una Repubblica da mesi, è la stessa Italia di oggi. E Pola ne fa ancora parte, anche se le mire del maresciallo Tito non intendono rinunciare all’italianissima città. Poi quella mano, rimasta ignota. Vergarolla è dunque il primo attentato terroristico della storia repubblicana italiana e il più sanguinoso, più della stazione di Bologna o di piazza Fontana. Il primo di una lunga serie di stragi rimaste senza mandanti e senza giustizia. L’unica però cancellata dalla memoria: mai una corona da un presidente della Repubblica, mai una riga sui libri di storia.

In quei giorni, lo ricordiamo, a Parigi le grandi potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale stanno decidendo il destino della città istriana e ridisegnando la mappa dei confini adriatici orientali. La popolazione è ottimista, vuole l’Italia, spera nel diritto all’autodeterminazione, le manifestazioni si moltiplicano, e anche quella domenica agostana migliaia di polesani affollano la spiaggia per una gara patriottica. Dinanzi a quel botto speranze e ideali si disintegrano e l’esodo di colpo appare l’unica possibilità di salvezza.

La strage suscitò un’impressione fortissima, la stampa mostrò immagini orrende, gli Alleati aprirono subito un’inchiesta e le indagini appurarono facilmente che l’attentato era doloso, contro la tesi sostenuta da ambienti jugoslavi che parlava di “incidente”. Malgrado l’oblio e l’omertà, un documento dell’epoca, rivenuto negli archivi londinesi, ha finalmente attestato la “volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva”: Pola deve svuotarsi, a tutti i costi la città deve diventare slava. A ulteriore suffragio di questa verità vi è anche la testimonianza di Milovan Gilas, deflino di Tito, il quale in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: “Nel 1946 io ed Edward Kardely, stretto collaboratore del maresciallo, andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana…bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto”.