Solženicyn, un profeta del XXI secolo / parte I

Solženicyn, un profeta del XXI secolo / parte I

02/08/2022 Off Di   Redazione   In   Officina   

“Considero pieno di pericoli il passaggio dell’umanità dalla sfera naturale alla tecnosfera: questa marea riduce sempre di più la presenza dell’elemento spirituale. L’uomo da tipo storico – culturale si sta sempre più mutando in tipo ‘tecnogeno’. Questa profonda trasformazione psicologica è foriera per l’umanità di una minaccia mortale: perdere se stessa”.

Così rispose nel 1998 alla domanda del Wall Street Journal “Che cosa ci preoccupa di più alla fine del millennio” Aleksandr Solzenicyn, scomparso il 3 agosto del 2008. Indicato negli ultimi tempi come ispiratore del presidente russo Vladimir Putin, il quale fu indubbiamente apprezzato dallo scrittore russo Premio Nobel della letteratura nel 1970 e che l’11 dicembre 2018 inaugurò un monumento a lui dedicato, sarebbe tuttavia riduttivo (soprattutto in un periodo di russofobia imperante) analizzarne la figura – con inevitabili forzature da un lato come dall’altro – in questa esclusiva prospettiva.

Se l’autore di Arcipelago Gulag assunse negli anni della Guerra Fredda il ruolo di incarnatore del dissenso in Unione Sovietica (al punto da avere suscitato l’interesse anche di settori della sinistra anti-sovietica) la denuncia dei crimini del comunismo in Solgenistin si accompagnò ad una vastissima produzione saggistica altrettanto critica rispetto all’Occidente liberale, nel quale lo stesso intravedeva “la logica di sviluppo del materialismo”.

DALLA GRANDE GUERRA PATRIOTTICA AL GULAG FINO AL NOBEL

Laureatosi in matematica e fisica nel 1941 si arruolò come ufficiale di artiglieria nell’Armata Rossa; combatté nelle battaglie di Krusk e nella Prussia Orientale. Promosso a grado di capitano e decorato per ben due volte (Guerra Patriottica di seconda classe e Stella Rossa) fu fatale per Solzenicyn una lettera ad un amico nella quale criticava Stalin. Arrestato e poi processato per direttissima nel luglio del 1945, fu condannato a otto anni di lavoro forzato. Da questa esperienza nascono tre aspetti senza i quali la sua vita non sarebbe stata più la stessa: la critica al marxismo – leninismo, la scoperta della fede ortodossa e l’attività di letterato.

Riabilitato nel 1956 nel clima della destalinizzazione avviato da Kruscev, poté finalmente con due libri Una giornata nella vita di Ivan Denisovich e Arcipelago Gulag denunciare alla Russia di allora cosa significò lo stalinismo.

Ma la persecuzione non terminò con lo stalinismo: il 16 maggio 1967, in una famosa Lettera al IV congresso degli scrittori sovietici Solzenicyn denuncia “L’oppressione, a lungo andare insopportabile, che la nostra letteratura subisce da decine e decine di anni”, nel 1970 viene insignito del premio Nobel della letteratura. Decise di non recarsi in Svezia alla cerimonia ufficiale, per il fondato timore di non poter più tornare nel suo paese. Nel suo Il mio grido. Discorso per il Premio Nobel espose il ruolo attivo degli scrittori nella storia nazionale:

“Uno scrittore non è il giudice indifferente dei suoi compatrioti e dei suoi contemporanei. Egli è il complice di tutto il male commesso nel suo paese o dai suoi compatrioti. (…) Ecco in sostanza il compito degli scrittori: essi esprimono attraverso la loro lingua materna la forza principale di unità di un paese, della terra occupa il suo popolo e, nel migliore dei modi, del suo spirito nazionale. Credo che la letteratura mondiale, in questi tempi agitati, sia capace di aiutare l’umanità a vedersi così com’è, a dispetto dell’addottrinamento e dei pregiudizi degli uomini e dei partiti”

Solzenicyn, che in quanto attento studioso seguiva gli avvenimenti che il ‘68 stava provocando in Occidente: giovani che “ripetono con esultanza gli errori della Russia depravata del XIX secolo” e che “applaudono agli ultimi atti di vandalismo delle Guardie Rosse cinesi additandole allegramente ad esempio”. Mentre coloro che potrebbero opporsi “ingoiano qualunque cosa pur di non apparire come conservatori”.